Questione energetica e questione ambientale vanno di pari passo, anzi sono intimamente connesse poiche' si tratta, non solo di un problema di produzione, ma anche di consumo di energia.
Con l'opzione antinucleare (referendum del 1987 – indetto sotto l' ondata emotiva dell’incidente di Chernobyl dell’anno precedente) l' Italia ha fatto una scelta miope: ha rinunziato di fatto all'uso preferenziale dell'energia elettrica, ed ha optato per gli idrocarburi.
La differenza non e' da poco: la prima inquina solo nel luogo di produzione, cioe' in aperta campagna, dove lo smaltimento e' piu' agevole e dove in ogni caso v'e' minore concentrazione di abitanti; gli altri inquinano nel luogo del consumo, cioe' all'interno delle citta', dove alimentano milioni e milioni di fornelli a metano ( non producono PM10, ma inquinano anch'essi ), milioni di autoveicoli di ogni tipo, milioni di caldaie per il riscaldamento, centinaia di migliaia di impianti industriali.
Le centrali elettriche termonucleari avrebbero permesso di ovviare a buona parte di questo fabbisogno energetico.
Si pensi che per fronteggiare l'incremento del fabbisogno energetico da qui al 2020 in Europa si dovrebbero costruire 36 centrali nucleari: mentre se ne stanno costruendo solo 3.
E in Italia, dove il nucleare e' stato abbandonato, cosa avverra' ?
In tale situazione non v'e' dunque da meravigliarsi se da decenni stiamo arrancando dietro ad una Europa che sul piano della lotta all'inquinamento ha ben altro passo che il nostro.
La nostra politica ecologica, in questo campo, si e' ridotta ad una serie di misure empiriche improntate al metodo dell'antica medicina ex juvantibus: vediamo che effetto fanno.
Ma la logica e' piu' o meno orientata al criterio "tutti a piedi o tutti al freddo".
Nel frattempo, da una quindicina d'anni a questa parte, si e' sviluppata la green economy che, in questi tempi di crisi, ha assunto una valenza economica sempre piu' anticiclica.
Il suo fondamento sta nella Direttiva del 23 gennaio 2008 con la quale la Commissione Europea fissava gli obiettivi di ridurre le emissioni di gas ad effetto serra del 20%, i consumi energetici del 20%, nonche' di soddisfare il 20% del fabbisogno energetico con le energie rinnovabili, entro il 2020; obiettivi aggiornati con impegni successivi, ultimo dei quali quello assunto, nel dicembre scorso a Parigi, nella Conferenza mondiale Onu sul clima.
Ed il settore edilizio e' tra i piu' coinvolti in questa manovra, con il target del 27 % e del 30 % di risparmio energetico rispettivamente nel settore residenziale ed in quello industriale.
Per ottemperare ai parametri europei fissati anche ai fini del rispetto delle soglie di attenzione dell'inquinamento atmosferico, i proprietari si sono visti imporre o 'suggerire', da leggi nazionali o da normative locali talvolta travalicanti lo stesso portato delle prescrizioni comunitarie, una serie di interventi che alla resa dei conti, come abbiamo constatato in questi giorni, si sono dimostrati dei palliativi.
Hanno realizzato, in oltre un decennio, rottamazioni di caldaie ancora efficienti, trasformazioni degli impianti da gasolio a metano, rifacimenti degli infissi, installazioni di contacalorie e di valvole di termoregolazione, certificati energetici, cappotti termici per gli immobili.
L'efficientamento degli edifici esistenti e' una bella parola, ma comporta ingenti spese per i proprietari immobiliari.
E l'impressione e' che ci sia una grossa sproporzione fra i costi individuali ed i benefici pubblici, visto che siamo ancora al punto di partenza, anche in quelle citta' nelle quali tutte queste misure sono state da tempo applicate.